settembre 2020

pag. 1 Che cosa fa un analista / pag. 2 Siamo europei


Che cosa fa un analista di Ettore Perrella

  1. Premessa

La domanda che fa da titolo a questo breve scritto mi è stata posta da qualcuno, e vorrei provare a rispondere senza partire dalle formule psicanalitiche “classiche”, non perché queste siano errate o insufficienti, ma perché rischiano di rimanere incomprese, a volte anche dagli analisti, quando credono di esserlo, cioè che essere analista sia una determinazione ontologica, insomma una professione, come essere medico o essere avvocato.
Beninteso, si è medico, avvocato o psicanalista solo finché si agisce come tali. Il concetto universitario di professione fa credere invece che si agisca come medico o ingegnere solo perché si è acquisita una competenza ontologica che consente di farlo. Naturalmente, per praticare qualunque professione occorre un sapere, ma, come dice il proverbio, “vale più la pratica della grammatica”, e la pratica si acquisisce lavorando, non sui libri.
Per fortuna non esiste una laurea in psicanalisi. Purtroppo però esiste una laurea in psicologia, che dei giudici giuridicamente sprovveduti credono necessaria ad esercitare la psicanalisi.
Mais passons. Dopo aver accennato al problema, veniamo al dunque, vale a dire a quel che fa uno psicanalista, quando funziona come tale.

  1. La domanda

Incominciamo col dire che quel che fa un analista è determinato da una domanda d’analisi, senza la quale non potrebbe fare nulla. È la domanda – che, certo, di solito è riformulata più volte, nel corso dell’analisi – che affida all’analista un compito dal quale egli non solo non può, ma non vuole neppure uscire mai.
Non può uscirne, perché allora il suo intervento diverrebbe invasivo ed irrispettoso della libertà dell’analizzante, che è l’unico a tenere, fin dal primo momento, le redini che guidano nel percorso lungo il quale l’analista gli consente di procedere. Glielo consente, beninteso, perché l’analizzante non sa di tenere le redini, e per questo è un soggetto diviso fra una coscienza e un inconscio. Anche l’analista, certo, è diviso, ma non dovrebbe mai dimenticarsene, e questa è l’unica differenza effettiva fra un analizzante ed un analizzato.
Un analista, perciò, dal proprio compito, non solo non può, ma nemmeno vuole uscire, perché non solo non sa nulla del desiderio dell’analizzante, ma non ne vuole neppure sapere nulla (Lacan lo ha detto chiaramente). Questo non significa che l’analista non sappia da che parte tiri il desiderio dell’analizzante. Ma saperlo non toglie nulla al fatto che non è lui a doversi assumere la responsabilità di quel desiderio. Egli si assume, di fatto, solo la responsabilità del proprio.
È per questo che la psicanalisi è costitutivamente democratica: non s’impiccia mai del desiderio di nessuno, ma veglia al rispetto del principio generale che ciascuno ha il diritto e il dovere di vegliare sul proprio.

  1. Il desiderio dell’analista

Quel che l’analista desidera non riguarda tanto lui come individuo, quanto lui come funzione. Qui però bisogna fare attenzione, perché quest’affermazione potrebbe facilmente essere interpretata in modo riduttivo e quindi erroneo (è accaduto più volte nella storia della psicanalisi).
Non si diviene analista se non perché questo è inevitabile, come accade tutte le volte che il riconoscimento d’un desiderio comporta l’accettazione d’un destino.
Quando si parla dell’analista, è bene distinguere lui come individuo da lui come funzione. Il desiderio dell’analista come individuo è determinato, nell’esercizio della sua funzione come analista, dal fatto di lasciare all’altro la responsabilità del proprio desiderio.
Perciò la psicanalisi non si trasmette mai, ma ricomincia daccapo ogni volta che un analizzante diviene un analista (anche questo è stato detto più volte da Lacan).
Un analista – sia come individuo sia come funzione, questa volta – non ha nessuna verità universale o particolare da affermare sul desiderio di nessuno. Ciò non significa però che non sappia quali sono le conseguenze universali o particolari che si determinano dalle assunzioni, sempre singolari, del desiderio di ciascuno.

  1. Una contraddizione apparente

Quando si parla dell’analista, si tende a confondere l’individuo che fa l’analista con l’analista che agisce nell’analisi, per esempio ascoltando, interpretando o costruendo delle ipotesi.
Questa confusione è mortale per la psicanalisi, perché riduce la funzione ad una professione, vale a dire ad una determinazione falsamente ontologica dell’individuo come agente (su questo punto rimando alla Premessa).
Come individuo, chi fa l’analista ha fatto un’analisi, che è divenuta didattica quando egli ha iniziato ad operare come analista. Lo scopo dell’analisi e quindi della formazione è duplice, fino al punto che potrebbe persino apparire contraddittorio. Ma vedremo fra poco che non c’è nessuna contraddizione.
Si tratta infatti per un verso di divenire quello che si è. È ciò che significa la nota formula freudiana wo Es war soll Ich werden, “dove era es deve divenire io”: quello che si era senza saperlo, grazie all’analisi, si diventa essendolo consapevolmente. Qui si tratta d’un compito individuale interminabile. (Da questo dipende quanto ho detto nel § 2).
Per un altro verso si tratta di riconoscere d’essere un soggetto qualunque, vale a dire d’abbandonare ogni falsa pretesa narcisistica, riconoscendosi mortali ed imperfetti come chiunque altro. Questo riconoscimento ha quindi un oggetto totalmente generale.
Ciò nonostante, fra questi due compiti, dicevo, non c’è nessuna contraddizione. Non si diviene un soggetto qualunque se non diventando quello che si era. Divenire un soggetto qualunque non significa divenire uguale a tutti gli altri, e quindi indistinguibile dagli altri, ma uguale a tutti gli altri perché individuato e quindi differente da chiunque altro.
Per questo la psicanalisi è profondamente democratica. La democrazia non è il dominio delle masse indistinte (le masse non vedono l’ora di trovare un Führer), ma richiede che sia all’opera nel compito comune l’individualità di ciascuno proprio in quanto differente dall’individualità di ciascun altro.
Inoltre proprio per questo un analista ha una sua saggezza, che però non può generalizzare, perché, se lo facesse, parlerebbe in nome d’un principio e quindi di regole assolute e universali, e questo gl’impedirebbe di svolgere il suo compito. Di universale, per la psicanalisi, non c’è che l’assunzione interminabile, da parte di ciascuno, della propria individualità e del proprio destino. È universale, qui, solo il fatto che l’universalità serve a poco, quando si tratta dell’individuo e quindi dell’eticità dei suoi atti.
Aggiungo fra parentesi: proprio per questo la posizione dell’analista e quella del prete non sono assimilabili. Questo non significa che un prete non possa essere anche un buon analista (qualche volta è accaduto), solo che, quando è analista, non è prete e, quando è prete, non è analista.
Proprio per questo Freud, a proposito di Pfister (un prete che era anche analista), diceva che gli analisti sono pastori d’anime laici. L’analisi è sempre laica – aggettivo greco che in origine significava, semplicemente, popolare –, o non è. Proprio per questo la psicanalisi non è una professione, come sappiamo da quando Freud, nel 1926, riuscì ad ottenere che il parlamento austriaco non ne riservasse l’esercizio ai medici (ed oggi lo stesso dovrebbe valere per gli psicologi).
Il punto è che la psicanalisi non offre mai per nessuno una determinazione ontologica stabile, come invece pretendono di fare le università, quando credono di garantire la professionalità dei loro ex allievi.

  1. Dalla sembianza all’atto analitico

Quando un’analisi inizia, l’analista viene supposto sapere quel che l’analizzante sa di non sapere (l’inconscio). Questa supposizione viene chiamata transfert. Un’analisi non inizia prima che l’analista abbia capito chiaramente quale posto gli viene assegnato nel transfert.
Poniamo che Tal dei Tali sia l’analista di un’isterica, di un ossessivo e di un’anoressica. L’analista si comporta diversamente in queste tre situazioni cliniche, proprio perché, a causa delle differenze transferali, deve occupare una posizione diversa nella sembianza. Perciò in un certo senso l’analista dell’isterica, dell’ossessivo e dell’anoressica non è lo stesso analista.
Un conto però è la sembianza e un altro è l’atto analitico. Il secondo, in fondo, in quanto comporta un’uscita dalla posizione di soggetto supposto sapere e quindi dal transfert, non è più nella sembianza (anche se ne tiene conto). Quindi è Tal dei Tali come individuo che, compiendo l’atto analitico, si sottrae al transfert, facendo avvicinare l’analizzante alla fine dell’analisi. Se ne deduce che, paradossalmente, l’atto analitico non è compiuto dall’analista nella sua posizione transferale, ma da Tal dei Tali come individuo.
Per questo Tal dei Tali come individuo deve sapere molto bene che cosa lo lega – nel suo desiderio o nel suo destino – alla sua funzione di analista. Se egli confonde i due piani, supponendo d’essere analista come un medico è un medico, questo lo porta a mancare il proprio atto. Ogni volta che questo accade – e succede, ahinoi, molto spesso – la psicanalisi si riduce a non essere altro che un imbroglio.

  1. Dalla domanda al desiderio

Tal dei Tali, se sa tutto, come analista, del modo in cui il transfert fa funzionare l’analisi, invece non sa nulla e non vuole sapere nulla del desiderio dell’analizzante. È tenuto però – per quanto dicevamo poco fa – a saperne molto ed a volerne sapere sempre più del proprio.
È tenuto anche a sapere che cosa distingue la psicanalisi dalla psicoterapia, dalla psichiatria o dalla filosofia.
Non sto dicendo che Tal dei Tali, come individuo, non possa essere anche, in altre situazioni, psicoterapeuta, psichiatra o filosofo. Può esserlo benissimo, ma non come analista (come dicevo prima, la psicanalisi non dà mai a nessuno una determinazione ontologica stabile).
Per questo l’assimilazione, compiuta dall’Ordine degli psicologi, della psicanalisi ad una delle forme di psicoterapia è radicalmente erronea e riduce necessariamente la psicanalisi ad un imbroglio, se Tal dei Tali crede d’essere ontologicamente un professionista “iscritto all’Ordine”. E questo errore oggi è sostenuto anche dalle leggi e dai tribunali. Questo significa che noi analisti operiamo in una situazione di complessiva inciviltà.
Purtroppo non siamo i soli.
Un analista può anche fingere d’essere psicoterapeuta (quando l’analisi è domandata per eliminare un sintomo), o psichiatra (nel caso che lo sia e che questo sia necessario per gestire il transfert), o insegnante (per esempio quando insegna psicanalisi, o qualunque altra cosa).
Su questo punto, sarà bene chiarire subito un equivoco fondamentale: Lacan diceva che, quando insegnava, lo faceva dalla posizione dell’analizzante. Se ne dovrebbe dedurre che l’atto dell’analista non è mai educativo. Questo è vero finché ci ricordiamo del fatto che un analista non ha nessuna informazione da trasmettere (se non nella sembianza, o nell’interpretazione, o nella costruzione, come strumenti della gestione del transfert). Perciò dobbiamo distinguere radicalmente l’insegnamento come trasmissione d’un sapere dall’educazione come formazione. L’atto educativo, come l’atto analitico, non consiste mai nella trasmissione d’un sapere (di un’informazione), ma consiste sempre (anche nella scuola) nel far in modo che l’altro (l’allievo o l’analizzante) si assuma la responsabilità del proprio desiderio.
Perciò la psicanalisi è sempre formazione (qualche volta ha effetti terapeutici, che però sono solo un sottoprodotto secondario dell’esperienza, e perciò non la definiscono affatto e in nessun modo). Da questo punto di vista (etico) la psicanalisi e l’educazione sono, sostanzialmente, la stessa cosa: ogni analista è un formatore (un educatore) ed ogni formatore (educatore) è anche un analista.
Perciò tutti i grandi educatori del passato sono stati anche analisti, per quanto non sapessero niente della psicanalisi: per esempio Socrate, quando interrogava i suoi interlocutori, rivendicando per la propria posizione solo il “so di non sapere”; o lo stesso Cristo, quando attribuiva alla fede degli altri anche i propri miracoli.

  1. Formazione, informazione, educazione

Ancora per questo il discorso analitico è inassimilabile al discorso universitario (riprendo qui quello che diceva Lacan, vale a dire l’unico maestro che io abbia avuto), perché nel secondo ad essere nella posizione dell’agente è il sapere, mentre nel primo è l’oggetto causa di desiderio (posizione che occupa, nella sembianza, l’analista nel corso dell’analisi).
Quindi un analista, in quanto tale, non ha nessun sapere da trasmettere. In realtà non può farlo, anche quando vorrebbe. Ed insegna proprio per questo, ma come Tal dei Tali e non come analista.
Questo ha spesso l’inconveniente d’autorizzare gli analisti in formazione a rimanere ignoranti. A farli rimanere tali oggi collaborano di fatto anche le facoltà universitarie e gli Ordini professionali, per non parlare della rete informatica.
Ma da questo dobbiamo anche dedurre che la psicanalisi è sempre e solamente formazione, quindi “grande educazione”, come diceva Nietzsche. L’educazione è “grande” tutte le volte che è formazione. A formarsi è solamente l’individuo. Nessuno ha la possibilità e tanto meno il dovere, se non come individuo, di formare qualcun altro.
Da questo punto di vista, nulla distingue la psicanalisi dalla filosofia antica o dalla cura spirituale religiosa. In effetti tanto la filosofia greca, quanto la cura spirituale, non hanno mai trasmesso delle vuote informazioni, ma hanno sempre puntato a facilitare, nell’allievo, la libera assunzione del proprio desiderio. La formazione punta sempre ad una promozione dell’eticità.
Questo fa subito intendere quanto sia difficile la formazione, visto che nulla angoscia più della libertà, che ci lascia sempre soli dinanzi all’assoluto. La formazione, in effetti, in tutte le sue forme, punta sempre a promuovere la libertà individuale di chiunque. E niente è più difficile di questo.
Tuttavia non dobbiamo pensare che solo i grandi filosofi, le guide spirituali o gli analisti debbano essere dei grandi educatori. L’educazione, se non è “grande”, non è, o è solo pubblica istruzione. Anche tutti gli insegnanti e tutti i genitori, se vogliono educare, devono essere dei “grandi” educatori. L’etica non è obbligatoria per nessuno, ma è doverosa davvero per chiunque.
Anche per questo – perché non può fare a meno di ricordarlo – la psicanalisi è costitutivamente democratica.

  1. Attualità della psicanalisi

Noi viviamo in un mondo informatizzato. Opporsi all’informatizzazione (e quindi all’annullamento della formazione) è il compito politico – stavolta generale – della psicanalisi e di chiunque la eserciti (ma anche di tutti i politici, di tutti gli insegnanti, di tutti i genitori, insomma di chiunque).
Finché continueremo a supporre che, per formarsi, basti informarsi, non faremo che portare acqua al mulino dell’alienazione, e quindi alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi.
Quanti lo sanno? Oggi davvero pochi. Perciò noi analisti non dobbiamo stancarci di ripeterlo.
Pensare che per formarsi basti essere informati fa gl’interessi del capitalismo e quindi favorisce lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
E il comunismo che cos’è? Il contrario, cioè la stessa cosa, come si diceva una volta (finché la tirannia comunista non si è autodistrutta).
La psicanalisi non può esistere se non in un regime liberale, che tenda a diminuire lo sfruttamento, distinguendo radicalmente la formazione dall’informazione. Perciò il liberalismo democratico ed etico è addirittura il contrario del falso liberismo economico del capitalismo attuale.
Qui il compito degli analisti e di chiunque si rivolga a loro diviene politico. Ripeto: parlo del liberalismo nella sua forma più nobile e sociale, non del liberismo finanziario, che potrà durare solo finché non si autodistruggerà, come sapeva Marx.
In questo può riassumersi la difficile attualità politica della psicanalisi, quindi della formazione di chiunque.