marzo 2021

Gesù come invenzione di Ettore Perrella

  1. 1. È stata pubblicato di recente in italiano un monumentale e dottissimo volume di uno storico spagnolo, Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth. Storia e finzione (Bollati Boringhieri, Torino 2021; l’edizione spagnola è stata pubblicata nel 2018). Questo volume merita qualche riflessione, non fosse che per i problemi epistemologici – ma, come vedremo, non solo epistemologici – che implica la sua tesi.

Prima di tutto formuliamola in breve. Lo storico spagnolo si chiede: i pochi testi antichi che parlano di Gesù, i primi dei quali – le lettere di Paolo – sono almeno di trent’anni successivi alla sua morte, ci consentono di farci un’idea storica – quindi né religiosa né mitica – sulla sua figura? Beninteso, a questa domanda in duemila anni di storia del cristianesimo sono state date risposte diversissime. Ma queste risposte, anche quando sono state dichiaratamente atee, hanno sostanzialmente creduto a quei pochi testi di partenza; insomma non hanno modificato l’immagine che quei testi hanno consegnato alla storia.

Dal momento che anch’io ho scritto un libro su L’uomo Gesù e le radici dell’etica laica (NeP, Roma 2018), e che anch’io ero partito dall’inaffidabilità storica della figura di Cristo, come ci viene descritta nel Nuovo Testamento, è bene che io dichiari preliminarmente come avevo risolto il problema: ritenendolo insolubile, e considerando determinanti le informazioni che su Cristo ci danno i testi religiosi, anche se – o forse proprio perché – queste informazioni non hanno valore storico, almeno prima che la figura di Gesù appaia nei testi che ce ne parlano. Dopo, la sua figura entra nella storia, ma vi entra come figura eccezionale, insieme storica, perché umana, e sovrastorica, perché considerata divina. Questi testi infatti ci dicono che Gesù era sia un uomo di carne e ossa sia un Dio. Solo sulla base di questa ipotesi – che a mio avviso nessuna storia avrebbe potuto mai verificare – è nato e si è sviluppato il cristianesimo: vale a dire una tradizione bimillenaria di cui tutti noi facciamo parte, anche quando ci riteniamo atei.

Io, naturalmente, non sono uno storico, e mi sono attenuto alla tradizione della psicanalisi, nella quale, per esempio, non ha nessuna rilevanza strutturale capire se veramente un determinato soggetto ha, nella sua infanzia, assistito realmente ad una scena primaria. La scena esiste realmente a partire dalle sue conseguenze, come sono state interpretate o costruite dall’analista, ed assume uno statuto di realtà solo come effetto della parola che la fa essere. Allo stesso modo Gesù esiste realmente, nella storia, a partire dalle vicende che gli sono state attribuite, e questo non cesserebbe d’essere vero se un giorno si dimostrasse che, storicamente, egli non è mai esistito (ipotesi che pure è stata fatta, e che sia io sia Bermajo-Rubio riteniamo falsa).

Ora, da Paolo in poi, tutti sappiamo che, se non crediamo che Gesù, dopo essere morto, sia risorto, non siamo cristiani.

Ora, se di Cristo si predica che è risorto dai morti, come mai alcuni fra voi dicono che non c’è la resurrezione dei morti? Ché, se non c’è la resurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto. Se poi Cristo non è risorto, vana è dunque la nostra predicazione e vana è pure la vostra fede [1 Cor 15, 12-4].

Paolo scriveva queste parole quando il tempio di Gerusalemme era ancora in piedi e quando presumibilmente una condanna a morte avvenuta non più di trent’anni prima era ancora ricostruibile in base a documenti o almeno a delle testimonianze. Ma Paolo non ha mai fatto una ricerca negli archivi di Cesarea o di Gerusalemme. Ha conosciuto Gesù solo dopo la sua morte – questo, almeno ci dicono sia le sue lettere sia gli Atti degli Apostoli –, quando perseguitava i suoi seguaci, e quindi non gl’interessano affatto né la storia né il diritto, ma gl’interessa solo la resurrezione. Il nocciolo del suo messaggio è questo: se Cristo è realmente risorto, tutti risorgeremo. Se invece non crediamo che Cristo sia realmente risorto, tutto il cristianesimo è un delirio. Per crederlo, però, non dobbiamo affidarci alla storia, ma alla fede. Dopo duemila anni, il nocciolo del cristianesimo è ancora questo. Questo nocciolo non ha mai avuto niente a che fare con i documenti, neppure quando questi presumibilmente esistevano, e certamente esistevano dei testimoni della morte e della resurrezione di Gesù (anche se la parola “testimonianza” qui non ha nessun valore giudiziario, perché in fondo proprio Paolo è il primo testimone dell’esistenza già metastorica di Cristo).

Certo, ci si può chiedere quanti cristiani credano oggi che Gesù sia realmente risorto. E, in fondo, della realtà della resurrezione gli Apostoli erano stati i primi a dubitare (tutti ricordano l’episodio dell’incredulità di Tommaso). Perciò noi, se ci atteniamo al simbolo di Nicea, che però risale all’inizio del IV Secolo, dobbiamo rispondere che oggi due miliardi di cristiani credono alla resurrezione. Se invece ci atteniamo alla certezza religiosa, possiamo rispondere solo che non lo sappiamo, visto che anche i santi, nella storia del cristianesimo, hanno sempre dubitato.

Del resto all’inizio del mio libro, evocando un vecchio articolo di Octave Mannoni, avevo dichiarato quello che penso: dinanzi alla sfera della credenza, tutti noi siamo divisi; quindi tutti noi al tempo stesso crediamo e non crediamo. Insomma dubitiamo costitutivamente di tutto quello che crediamo, sia che ci riteniamo degli atei mangiapreti, sia che ci consideriamo religiosi. Insomma la fede – che non è la credenza – non riguarda nessun oggetto dimostrabile. Perciò nessuna scienza potrà mai dare una prova inconfutabile della verità di ciò che una religione ci trasmette.

2. Beninteso, la scienza ha spesso creduto di dimostrare che la religione è inconsistente, insomma una menzogna (“l’oppio dei popoli” di marxiana memoria). Ma, quanto alla credenza, anche chi non crede nel soprannaturale ci crede, magari senza saperlo. Almeno proprio questo avrebbe dimostrato quella scienza singolare che è la psicanalisi. E Lacan, che si riteneva ateo, ha tuttavia dimostrato che tutti credono in Dio, perché credono al Padre.Fernando Bermejo-Rubio crede invece che uno storico possa, interrogando come documenti i testi più antichi che ci parlano di Gesù, giungere a formulare un’ipotesi scientificamente attendibile su chi egli sia stato realmente. Quindi costruisce la sua figura umana con criteri esclusivamente storici, tenendo conto delle conoscenze che si hanno sulla Palestina del primo secolo. Procedendo con questo criterio, che, come dice lui stesso, è al tempo stesso “indiziario” e “semiotico”, e per questo è molto simile al metodo adottato dalla semeiotica medica o dalla criminalistica (p. 74), ed evocando persino la psicanalisi (p. 73), lo storico spagnolo respinge perciò tutti gli elementi che contrastano con la verosimiglianza storica e mantiene solo quelli che concordano con essa.

L’immagine di Gesù che si deduce da questo “editing” (p. 124 e p. 317) è molto diversa da quella che si ricava dalle lettere di Paolo e dai vangeli. Yehoshua ben Yosef, per essere condannato alla crocefissione da un governatore romano, doveva essere ritenuto un ribelle al potere imperiale (del resto altre condanne alla crocefissione erano state eseguite in Palestina dai romani per simili motivi). Se ne deduce quindi che Gesù, con due complici, sia stato condannato a morte come ribelle (i due “ladroni”, quindi, secondo questo “editing”, erano suoi seguaci).

La proclamazione del “regno di Dio”, lungi dall’essere politicamente innocua, implicava già un contrasto diretto e inequivocabile fra Gesù e l’Impero. […] L’esame svolto mostra che Gesù sembra aver nutrito la pretesa di essere re nel tradizionale senso davidico, che comportava la restaurazione politica della sovranità di Israele (pp. 135 e 145).

Gesù sarebbe stato insomma un vero rivoluzionario teocratico, simile ai tanti che, in quei decenni, esistevano in Palestina, i nomi dei quali ci sono stati riportati talvolta dalla storia, fino alla rivolto della Palestina e alla distruzione del Tempio.

Da un punto di vista storico “oggettivo” – ammettendo che la storia abbia a che fare con l’oggettività –, questa (ri)costruzione appare senza dubbio molto verosimile. Essa implica tuttavia che i seguaci di Gesù, delusi per il fallimento delle sue promesse messianiche, abbiano ben presto falsificato, consapevolmente o inconsapevolmente, quel che avvenne poi, inventando la resurrezione e, gradualmente, la concezione eirenica e universale di Cristo. Questa falsificazione dovette compiersi molto presto, visto che le lettere di Paolo, pur dandoci poche informazioni sulla figura storica di Gesù, appaiono sostanzialmente in accordo con molti punti che sarebbero stati definiti più tardi (dopo la distruzione del Tempio) dai testi evangelici.

  1. 3. Storicamente, dicevamo, questa ricostruzione è verisimile. Per accettarla, però, bisogna pagare un prezzo molto esoso, perché bisogna trasformare l’inventore del cristianesimo in un fanatico e i suoi seguaci in una comunità, se non d’imbroglioni, almeno d’illusi visionari. È verosimile che in pochi decenni una simile falsificazione sia stata riconosciuta come autentica da alcuni (e cristiani), senza essere smentita oggettivamente da nessuno? E siamo proprio sicuri che, quando si pretende di dare oggettività ai dati della storia, non si finisce poi necessariamente per seguire, invece dell’oggettività, il pregiudizio?

Sottolineiamo che qui non si tratta soltanto d’aver inserito nei resoconti evangelici delle tradizioni leggendarie, che del resto sono immediatamente percepibili a qualunque lettore moderno, ma d’avere completamente capovolto la figura di Gesù: un rivoluzionario ebreo totalmente fedele alla tradizione biblica sarebbe diventato un fautore dell’universalismo pacifista; un politico fanatico sarebbe stato trasformato nel fondatore d’una religione che predica di amare anche i nemici; un ribelle a Roma sarebbe diventato il garante divino del potere dell’Impero. E che cosa avrebbe dato a questo capovolgimento la forza non solo di diffondersi rapidamente nelle varie comunità ebraiche della diaspora, ma anche di creare un sistema di pensiero come quello che ci viene esposto nel Nuovo Testamento, che avrebbe costituito nei due millenni successivi uno dei pilastri fondamentali dell’intero Occidente?

Certo, i deliri religiosi sono sempre esistiti. Ma clinicamente è chiarissimo che essi, in quanto deliri, non hanno nessuna relazione con la religione, mentre ne hanno una particolarmente evidente con la psicopatologia.

Domanda: è possibile che una religione inventata da folli visionari abbia prodotto il cristianesimo, che certo non può essere ridotto a un delirio religioso? È possibile che da questa falsificazione siano nati gli scritti del Nuovo Testamento? Che dalla predicazione di questi matti esagitati si sia gradualmente sviluppato un insieme di dottrine religiose, etiche, politiche, che nel giro di due secoli e mezzo avrebbero conquistato l’Impero romano, trasformando un ribelle giustamente crocefisso con due suoi seguaci nel Figlio di Dio e nel garante spiritale della sovranità universale dell’Impero?

Francamente non posso non ammettere che il risultato, se si segue l’ipotesi di Bermejo-Rubio, è così contrastante con tutto ciò che sappiamo del cristianesimo che, se la riteniamo vera, il risultato di verità di tante menzogne appare non meno miracoloso del fatto che Gesù sia nato da una madre vergine, che sia risorto dai morti e che sia assunto in cielo…

Ognuno è libero di credere quello che vuole. La differenza però è irriducibile. Se si accetta che la teofania non sia spiegabile, e nemmeno ammissibile, con i criteri della scienza (per esempio della storia) – e certamente per la scienza e per la storia non c’è mai stata nessuna teofania –, si ammette che il senso – cioè la verità – sia irriducibile alla meccanica della significazioni, che è l’unico strumento della scienza e della storia. Se invece, con la scusa della scienza e della storia, si riduce la teofania ad un delirio, si trasformano duemila anni di cristianesimo in un non senso. Ma allora si trasformano in non senso anche tutti gli effetti culturali del cristianesimo nella storia dell’Occidente.

Da questo punto di vista è preoccupante che il dottissimo libro di Bermejo-Rubio sia stato scritto: non perché non valga la pena di leggerlo, ma perché è grave che qualcuno abbia potuto scriverlo. Questo stesso fatto testimonia in effetti quanto lontano sia il mondo d’oggi da ogni possibilità di pensare che la politica abbia qualche relazione con l’etica. Infatti, se Cristo stesso non fu che un terrorista, è giusto che il potere si ritenga autorizzato a commettere qualsiasi misfatto con buona coscienza.