dicembre 2020

La violenza sulle donne: il coraggio di chiedere giustizia di Finizia Scivittaro

Negli ultimi anni ho seguito diverse donne, vittime di violenza, soprattutto all’interno del consultorio familiare del CIF (Centro Italiano Femminile) di Padova. Dal 2017, presso il consultorio, è stato attivato un Servizio Antiviolenza rivolto a tutte le donne, agli anziani vittime di violenza, ai minori soggetti a violenza assistita e agli uomini violenti che accettano di essere coinvolti nei percorsi di presa in carico e di cura. Il Servizio Antiviolenza prevede, oltre alla consulenza psicologica, anche l’assistenza legale e la consulenza medico-ginecologica. La presa in carico dei soggetti coinvolti avviene attraverso l’integrazione dei diversi ambiti d’intervento professionale, al fine di rendere i percorsi di cura più efficaci.

Man mano che procedevo nel percorso psicologico con le donne vittime di violenza, mi accorgevo che diveniva sempre più urgente la necessità di compiere atti terapeutici forti, per arginare gli effetti devastanti che la violenza aveva lasciato nella psiche delle pazienti. Per questo mi persuadevo sempre più che, di fronte all’orrore della violenza di genere, era necessario valutare l’atto della denuncia, nei suoi vari aspetti e modalità, anche quando questo non sembrava immediatamente evidente o doveroso. Tutte le volte, però, mi trovavo di fronte ad una forte resistenza da parte delle pazienti alla sola idea di poter denunciare il loro aguzzino, anche quando questi non era un familiare stretto come il partner. I sentimenti prevalenti che erano alla base delle resistenze riguardavano la paura e il senso di colpa. Quest’ultimo, però, rappresentava lo zoccolo duro da scardinare. Venivo così a constatare che queste donne non riuscivano a riconoscersi il diritto di essere difese e, di conseguenza, di essere liberate dalle maglie della violenza. La loro grande difficoltà era quella di riuscire ad autorizzarsi come soggetti in grado di chiedere e di ricevere giustizia, nonostante fossero state violate nei loro diritti più sacri. Apprendevo quanto possa risultare difficile riuscire a disidentificarsi dal ruolo di vittima. Esso è impregnato di tutti i pregiudizi della cultura maschilista, che riduce le donne alla posizione di oggetto. L’essere vittima, inoltre, conferisce un’identità: la posizione della vittima può essere assimilata ad una posizione sacrificale e sappiamo, soprattutto dagli studi antropologici, quanto sia fondamentale e centrale nelle pratiche sacrificali il ruolo della vittima, sul versante immaginario e simbolico, per i singoli e per l’intera comunità. Abbandonare questa posizione comporta che il soggetto inizialmente possa trovarsi spaesato e disorientato e, di conseguenza, debba ricercare un nuovo modo di essere più vero e autentico.

Tutto questo permette di comprendere quanto sia complesso, doloroso e impegnativo il percorso che le donne devono affrontare, per arrivare a denunciare e presentarsi in tribunale. A tutto questo, di solito, non si pensa. Quando apprendiamo dai media le notizie di donne che denunciano gli uomini maltrattanti, non ci rendiamo conto della grande sofferenza e delle difficoltà soggettive a cui esse hanno dovuto far fronte.

Nella mia pratica psicanalitica ho seguito due donne fino al processo e, in entrambi i casi, sono stata nominata come testimone riguardo ai fatti relativi alle violenze che esse hanno subito. Per me queste due esperienze sono state impegnative e intense anche sul versante emotivo. Prima di arrivare in tribunale ho dovuto deporre le mie testimonianze presso il comando di polizia e ricordo ancora che, per uno dei due casi, l’interrogatorio è durato quattro ore consecutive.

L’esperienza in tribunale, però, in entrambi i casi è stata la parte più conturbante, non solo per le pazienti, ma anche per me. Come tutti i processi, anche questi due sono stati impegnativi, sia per i tempi di svolgimento, sia per come essi procedevano sul versante delle deposizioni, del dibattimento e delle discussioni. Entrambe le donne coinvolte hanno vissuto il periodo dello svolgimento del processo con un forte impegno emotivo, con uno stato continuativo di attesa e, soprattutto, con la speranza che venisse loro resa giustizia. Finalmente erano giunte nel luogo dove, in ogni aula, si legge a grandi lettere che la legge è uguale per tutti e dove viene amministrata la giustizia, il vero spirito della legge.

In entrambi i processi gli autori di violenza sono stati assolti ed io mi sono trovata a raccogliere i cocci dello smarrimento, della disperazione e della rabbia delle due donne che, faticosamente e con pazienza, erano arrivate fino al processo, che rappresentava, per entrambe, un passaggio logico importante nella loro vita.

Com’è stato possibile che in entrambi i processi gli autori di violenza siano stati assolti? È una domanda che, ancora adesso, continuo a pormi. Mi sembrano inverosimili quelle sentenze di assoluzione. Durante i processi erano state presentate prove, attraverso referti medici, foto di traumi e lesioni fisiche e messaggi minacciosi. I racconti e le deposizioni fornivano una ricostruzione dei fatti esauriente, coerente, approfondita e dettagliata. C’era la presenza di più di un testimone, in entrambi i casi, e, in uno di essi, addirittura l’autore di violenza non aveva neanche negato di aver compiuto uno degli atti violenti di cui era stato accusato. Entrambe le vittime erano in grado di dimostrare che, proprio a causa delle violenze subite, si erano subito allertate chiedendo aiuto al Servizio Antiviolenza per essere assistite e, infatti, in quel contesto avevano iniziato un percorso psicologico personale, portato avanti in modo continuativo e con costanza, tuttora in corso per una di loro.

Eppure nonostante tutto, durante lo svolgimento del processo, le parti lese non venivano credute a sufficienza, i loro racconti venivano spesso messi in dubbio e, in alcune parti delle loro narrazioni, ritenuti anche poco attendibili. Questo aspetto è molto frequente nei processi per violenza di genere, lo sottolinea la gip Paola Di Nicola nel suo libro La giudice (Ghena, Roma 2012), nel quale riflette sulla storia delle donne nella magistratura italiana, impregnata di pregiudizi e preconcetti.

Come un cliché, anche in questo caso i giudizi, che ricadevano sulle donne da parte sia degli avvocati che difendevano gli imputati, sia, in alcuni casi, delle stesse giudici, erano spesso impietosi e rigidi. Durante la deposizione di una delle due donne lese, ad un certo punto, la giudice esordì dicendole che il modo con cui descriveva i fatti e con cui rispondeva alle domande, che le venivano poste, denotava una chiara abilità nel sapersi difendere, che poco si conciliava con la sua dichiarata incapacità a svincolarsi dalla presa del suo aggressore, durante l’atto della violenza. Subito dopo quell’udienza, la donna mi disse che di fronte a quella dichiarazione si era sentita pietrificata e nell’impossibilità di riuscire a dare spiegazioni.

Per le giudici era stato più facile cogliere il lato umano negli uomini autori di violenza, quindi giustificare alcune loro debolezze, che non nelle donne vittime.

Ho constatato di persona che la cultura patriarcale, svuotata della sua funzione simbolica e sacra e ridotta a mero maschilismo, è ancora molto presente nei nostri tribunali e arriva ad influenzare le decisioni dei giudici, che, oltretutto, in questi due casi, erano delle donne.

I retaggi e i pregiudizi culturali possono essere superati solo attraverso la soggettività di qualcuno che, di fronte ad alcune esperienze di vita importanti, riesca a compiere un atto di pensiero forte e individuale, che lo impegni prima di tutto come persona, anche di là del ruolo sociale e professionale che svolge nella società; altrimenti la cultura, con le sue forme consolidate e le sue prescrizioni predefinite, detta le sue leggi impietose.

A questo proposito ricordo Processo per stupro, un film documentario del 1979 diretto da Loredana Rotondo. È stato il primo documentario su un processo per stupro ripreso dal vivo, dalle telecamere Rai, nel tribunale di Latina. L’arringa dell’avvocata Lagostena Bassi che, nel processo, era il difensore di parte civile della giovane donna, Fiorella, vittima di uno stupro di gruppo, ha permesso alla parte lesa di ricevere la giustizia che le spettava, con una sentenza che merita di essere ricordata e conosciuta per l’alto valore di pensiero e di princìpi che essa esprime. Lagostena Bassi ha difeso la giovane vittima non solo dagli autori della violenza ma anche dai loro legali, i quali, nelle rispettive arringhe, tendevano a dimostrare dei presunti atteggiamenti sconvenienti o una presunta passività della giovane donna, che avrebbero attenuato o addirittura giustificato la gravità della violenza. In un’intervista del 2007, l’avvocatessa precisò che la trasmissione del documentario in tv ebbe una presa forte sui telespettatori, perché per la prima volta si rendeva visibile come gli avvocati, che difendevano gli accusati di stupro, potevano essere altrettanto violenti nei confronti delle donne. Infatti durante il processo avevano inquisito sui dettagli della violenza e sulla vita privata della parte lesa, puntando a screditare la credibilità e finendo per trasformarla in imputata. Il messaggio che essi trasmettevano era che una donna di “buoni costumi” non poteva essere violentata e che, se ciò era accaduto, questo era stato causato dall’atteggiamento “sconveniente” della donna. Nel dibattimento l’avvocata Lagostena Bassi aveva sottolineato la necessità di ricordare che lei non era il difensore della parte lesa, bensì l’accusatore degli imputati, e lo fece proprio per riportare simbolicamente la questione al suo giusto posto, perché i difensori degli imputati avevano spostato gradualmente il disonore da loro alla vittima.

È interessante notare che, all’esordio del dibattimento, l’avvocatessa aveva dichiarato di essere lì prima di tutto come donna e poi come avvocato, e che chiedeva giustizia in quanto donna, insieme alla parte lesa e alle sue compagne presenti in aula. Non chiedeva una condanna severa, pesante, esemplare, non le interessava la condanna, ma voleva che in aula fosse resa giustizia alla giovane che difendeva, specificando che proprio questo faceva la differenza.

Riporto un breve passo, che segue la dichiarazione sopra citata, della sua arringa:

Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Noi chiediamo che, anche nelle aule dei tribunali e attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese. Si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Noi donne abbiamo deciso e Fiorella, in questo caso, a nome di tutte noi, noi le siamo solamente a lato, perché la sua è una decisione autonoma, di chiedere giustizia. Ecco, questa è la nostra richiesta.

L’idea di documentare un processo per stupro era nata dopo un convegno sulla violenza contro le donne, organizzato dal movimento femminista, nell’aprile del 1978, nella Casa delle donne, a Roma. In quel convegno emerse che in ogni parte del mondo, quando viene svolto un processo per stupro, generalmente la vittima è trasformata in imputata.

Questo punto di orrore risulta più evidente quando questo ribaltamento avviene in processi condotti da donne, siano esse avvocatesse , siano esse giudici.

In questa prospettiva può sembrare contraddittorio che una donna vittima di violenza arrivi in tribunale per chiedere giustizia. Se è in posizione di vittima, come può autorizzarsi come denunciante e chiedere giustizia? Quello che non è immediatamente evidente è che una donna che si autorizza a denunciare si è già spostata dalla posizione di vittima, e l’atto della denuncia è la conseguenza diretta dell’effetto d’un processo di formazione soggettiva. La donna che arriva al processo, da qualche parte, si è già riscattata dalla posizione di oggetto che la cultura maschilista le impone. Questo è il vero aspetto perturbante, che tutte le volte rischia di mettere in crisi un sistema culturale e sociale che si riflette anche nelle aule di giustizia, dove si può incorrere nell’errore di far prevalere il pregiudizio sul giudizio, soprattutto quando si lascia che siano i preconcetti storici e culturali a prevalere rispetto all’esserci come donne “con il coraggio e la consapevolezza del proprio diverso punto di vista, dopo averlo focalizzato e valorizzato”, per dirlo con le parole di Paola di Nicola nel suo volume La giudice (pag.64).

Nella foto: un’immagine del documentario “Processo per stupro” (1979)