aprile 2021

Al posto di un vulcano di Ettore Perrella

Mario Rivardo e Maddalena Muzio Treccani hanno di recente pubblicato un libro, La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (Scalpendi editore, Milano 2021), che, come dichiarano nelle prime pagine, deriva dal lavoro svolto nel difficile periodo della pandemia (p. 8). Credo che i nefasti ed inattesi panorami aperti da questa situazione, benché ciò non venga detto esplicitamente nel libro, siano stati decisivi nel determinarne sia le tematiche sia gli orizzonti. Non a caso in queste pagine viene spesso evocato il romanzo Vita e destino, di Vasilij Grossman, nel quale ha una funzione essenziale il campo di concentramento. Leggendo questo romanzo,

il messaggio che emerge è che la vita, in fondo, vince sempre, anche rispetto alle più efferate atrocità o alle più sconvolgenti catastrofi, naturali o provocate dall’uomo stesso. Sarà sempre così? Sarà sempre possibile ricominciare? Molti dubbi a questo proposito stanno emergendo. Lasciamo in sospeso questa domanda, alla quale non si possono dare risposte (p. 41).

Non si può negare tuttavia che questa domanda lasciata in sospeso getta la propria ombra su tutto il libro, anche se il materiale clinico sul quale gli autori lavorano è costituito soprattutto da disegni di bambini (vi ritorneremo). Il fatto che, più di un anno dopo l’inizio della pandemia, il problema che essa ha posto agli ideali illuministici, positivistici o scientisti delle “magnifiche sorti e progressive” non sia ancora stato risolto, nonostante il “provvidenziale” ricorso ai vaccini, può far pensare all’inizio di un tramonto, forse definitivo, di quegli ideali. La vita, nonostante la pandemia abbia provocato più di un milione di morti, avrebbe tutto da guadagnare da questo tramonto, se ad esso seguisse una ripresa politica ed economica che tenesse finalmente conto delle possibilità del nostro pianeta e dei bisogni reali di chi vi abita.

Naturalmente, la domanda “sarà sempre possibile ricominciare?”, nella nostra tradizione, ha già avuto una risposta negativa. Si dimentica troppo facilmente che il cristianesimo è sempre stato imperniato sulla prossimità della chiusura del tempo e del passaggio definitivo al sovratemporale – al Giudizio –, dove nulla più potrà cominciare perché tutto sarà compiuto. E che il passaggio dalla storia all’assoluto è mediato dal trionfo ingannevole del Male, che trionferà nella distruzione, aprendo così la strada alla rivelazione definitiva del Giudice.

Il fatto che gli affreschi di Orvieto, che raffigurano l’apocalisse futura con tanta raccapricciante evidenza, abbiano avuto per Freud una funzione essenziale, come sappiamo da quello che ci dice sulla dimenticanza del nome del pittore che li ha dipinti, Luca Signorelli, dovrebbe pur dimostrarci che il mito apocalittico ha sfiorato la riflessione del padre della psicanalisi, tutte le volte che ha riflettuto – e lo ha fatto sempre – sulla prossimità fra l’amore e l’odio, fra la vita e la morte, fra Eros e Thanatos, fra il principio di piacere e il suo al di là. In effetti, se proseguiamo nella lettura del passo che abbiamo citato prima, troviamo subito una sfumatura apocalittica.

La vita, da un punto di vista biologico, è stata molto indagata dalla scienza, e molti dei suoi segreti sono stati svelati. Svelati al punto tale che l’uomo di scienza è e sarà sempre più in grado di duplicare la vita, fino a ritenere che potrà duplicare anche l’uomo stesso, non solo nella fantasia di romanzi o di film, ma anche nella realtà concreta (ibid.).

In effetti, non si tratta solo di quell’appassionante campo immaginario che si chiama fantascienza, ma della possibilità concreta che la vita o l’uomo (vale a dire la sua mente) vengano duplicati. Come? Da una macchina. Beninteso, nonostante l’ingegneria genetica, dubito che in un laboratorio di biologia si sia mai creata una cellula vivente da una materia “morta”, benché organica. Sono certo però che fior di scienziati – o sedicenti tali – affermano che non è lontano il giorno in cui un computer sarà abbastanza complesso da divenire a tutti gli effetti “qualcuno”. Questo pasticcio epistemologico ha un nome di successo: Intelligenza Artificiale (IA, per gli amici).

Il pasticcio è questo: che siccome si è deciso che la mente non è altro che una macchina, allora non sarà difficile costruirne una più perfetta. Ma la mente umana è solo una macchina di Turing? Certamente no. Infatti poco dopo, nella stessa pagine, leggiamo:

Ma qual è la logica che sottende la vita del singolo individuo? Sicuramente, la vita del singolo partecipa e contribuisce alla sopravvivenza della specie, ma non coincide integralmente con essa (ibid.).

La mente umana è un calcolatore – e certamente è anche questo –, ma da questo punto di vista tutte le menti si equivalgono. Non è quindi dal calcolo che dipende ciò che distingue un individuo da un altro. E la psicanalisi non si occupa, come la psicologia, di nessun soggetto in generale, perché si occupa solo di individui, nella loro inesauribile singolarità. Proprio questo ha messo sempre la psicanalisi a contatto con la dimensione etica dell’atto.

Lo psicoanalista si occupa della singolarità della vita di ogni individuo, uno per uno sosteneva Lacan ma, nel far questo, come spesso avviene in molte scuole di psicoanalisi oggigiorno, si dimentica di collocare la singolarità all’interno della discesa dell’uomo, della Descent of Man di Darwin. Non così Freud che […] ha sempre dialogato col pensiero di Darwin (ibid.).

In realtà la differenza è anche più radicale, perché Lacan respingeva la prospettiva evoluzionistica, preferendo il creazionismo tomista, che rispettava totalmente il privilegio del significante. Ora, il significante, nonostante Joyce, è sempre generale, e proprio per questo Lacan ha dato tanto rilievo all’etica e all’atto psicanalitico.

Occorre precisare che un conto è la discesa – o la discendenza – dell’uomo in generale, come specie, dall’albero della vita, è un altro è la discendenza culturale di un singolo dalla società o dalla famiglia da cui proviene. La psicanalisi, evidentemente, si occupa della seconda, e per niente della prima. Ed è utile ricordare che la discendenza culturale non coincide affatto con la discendenza biologica, generale, delle specie. Ignorare la differenza, come solitamente fa la scienza, significa eliminare la prospettiva etica, riducendola alle generalità, cioè alla logica che presiedeva al campo di concentramento e di sterminio, per essere incluso nei quali non è mai servito nemmeno essere colpevoli, perché bastava appartenere ad una generalità. Qui la scienza, se non coltiva in sé la prospettiva etica, rischia di non essere altro che uno strumento distruttivo di dominio, come dimostra il mito dell’Anticristo.

Non a caso alla pagina successiva viene citato Viktor Frankl, autore di L’uomo in cerca di senso: uno psicologo nei lager. Effettivamente nessuno è mai riuscito a risolvere il problema del senso del campo di sterminio, e forse proprio per questo tanti scampati al pericolo non sono mai usciti da un paradossale senso di colpa melanconico per essersi salvati. In effetti, come notano giustamente gli autori di La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, questo problema non poteva risolversi, perché una sua soluzione non è possibile neppure dal punto di vista religioso. Il trionfo del male è insensato. E l’insensatezza del male si supera solo nella prospettiva dell’atto, non in quella degli scopi generali o universali.

A questo punto possiamo riprendere il detto di Dostoevskij – Temo una cosa sola: di non essere degno del mio tormento – e ripensarlo non nella direzione del senso, del significato, dello scopo della vita. Un altro modo per essere degno del mio tormento vuol dire accogliere il mio tormento e far emergere la forma di vita che in esso è contenuta, senza che intervengano a questo proposito il senso, il significato, lo scopo della vita, elementi che risulterebbero esterni e che deformerebbero la forma di vita contenuta nel mio tormento (p. 43).

Il nome di Dostoevskij non interviene a caso, perché il grande romanziere russo conosceva molto bene, come il suo amico Solov’ëv, il senso della grande prova apocalittica del confronto con il Male. La soluzione del problema non è quella del progresso generale della specie o della scienza, ma quella dell’accoglimento, nel male che ciascuno ospita in sé, di un’area in cui sia possibile vivere e amare.

Paradossalmente – e qui veniamo finalmente alla clinica – è proprio nei disegni dei bambini che tutto questo assume, senza che essi sappiano nulla dell’Anticristo o dell’apocalittica cristiana, un’evidenza dimostrativa. Per superare il “no” dell’aggressione e dell’odio, che si rivolge sia ai genitori sia al terapeuta, come opposizione alla cura (p. 60), non ci si deve contrapporre al disegno traducendolo in parole, perché

la scelta per il disegno, nel lavoro clinico con questi bambini, si fonda sul fatto che nel disegnare la parola non ha un posto di preminenza (p. 68).

Perciò

l’intervento dello psicoanalista, per lo più, deve incentrarsi sulle variazioni dei colori e della forme. Tanto più l’intervento si limita a evidenziare le variazioni, tanto più l’analista è in grado di stare all’interno del disegno del bambino e tanto più il bambino opererà un’apertura nel suo muro difensivo nei confronti del terapeuta (ibid.).

Una bocca non potrà mai baciare se stessa, come, secondo Freud nei Tre saggi, vorrebbe la pulsione (p. 77). Perciò la pulsione, per non essere soltanto distruttiva ed autodistruttiva, dovrà aprirsi necessariamente – eticamente – alla prospettiva dell’atto e dell’amore.

Il vincolo incestuoso deve essere sciolto, se si vuole che un nuovo legame, e non più un vincolo tra le due molecole si possa formare: così nasce la vita psichica, die Seelenleben. Ricordo la mia meraviglia e il mio stupore nel vedere che nel cratere di un vulcano spento, il Monte Rosso dell’isola di Linosa, i contadini coltivavano la vite e il fico d’India, nel pensare che proprio lo stesso cratere, dal quale era fuoriuscita la lava che aveva portato morte e distruzione, ora riparava dal vento la vite e il fico d’India creando le condizioni ideali per una loro crescita rigogliosa. Tutto questo un bambino lo sa (p. 89).

Ed i terapeuti lo devono imparare, prima di tutto oggi, quando gl’ideali distruttivi del progresso a tutti i costi sono stati smentiti con tanta evidenza dal “vulcano” che la natura ha saputo aprire nelle nostre illusioni, servendosene per dimostrarci quanto fossero distruttive.

nella foto: Luca Signorelli, Apocalisse (part.), Duomo di Orvieto.