settembre 2020

Siamo europei di Ettore Perrella

  1. “Siamo”

Il verbo italiano “siamo” può essere tanto un indicativo presente, quanto un congiuntivo presente. Perciò l’espressione “siamo europei” può significare due cose diverse: noi siamo di fatto europei; oppure noi dobbiamo essere europei (al congiuntivo esortativo, che in questo caso vale come un imperativo). È come dire che divenire di fatto europei – invece che italiani, francesi, tedeschi ecc. – è per noi un imperativo proprio perché già di fatto lo siamo, anche se non ne teniamo conto o, magari, non ce ne ricordiamo neppure.

  1. Ue

Come quasi tutti coloro che leggeranno ciò che sto scrivendo, io sono nato italiano. Ma vorrei morire europeo, come oggi per un verso sono già (in quanto l’Unione europea è di fatto una confederazione), ma per un altro non sono ancora (in quanto l’Unione europea non è una federazione, quindi non è uno Stato, ma solo il risultato di un accordo fra ventisette Stati).
Quanti condividono, oggi, questo mio desiderio?
Il nazionalismo, nella storia europea, è stato una malattia recente, anche se molto nefasta, perché è nato solo dopo che l’Italia e la Germania sono diventati due Stati unitari. Il nazionalismo ha portato subito al massacro della prima guerra mondiale, che è continuato con il massacro della seconda. Il movimento europeista ha sempre mirato prima di tutto ad evitare altre guerre. E senza dubbio dal 1945 al 2020 sono passati settantacinque anni in cui l’Europa, per la prima volta nella storia, è sempre stata in pace (con l’unica eccezione della guerra civile jugoslava, che gli altri paesi europei non hanno fatto niente per evitare).
Io sono nato sette anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, poco prima che iniziassero ad essere compiuti i primi passi verso la realizzazione d’una federazione europea.
Questo sogno, coltivato negli anni della seconda guerra mondiale da Altiero Spinelli, se sotto certi aspetti è stato realizzato, per un altro è stato del tutto misconosciuto. In effetti l’Unione europea è solo una confederazione sbrindellata e incapace di funzionare, nonostante l’esistenza dell’euro.
L’euro è una moneta fondata su un calcolo politico timido, che, in un recente libro, Ashoka Mody ha dimostrato che non poteva che far arricchire i ricchi e impoverire i poveri. Tutti ce ne siamo accorti, dal momento che, essendo italiani, appartenevamo ai secondi, e perciò l’euro ci ha fatti impoverire ancora di più.
Ciò nonostante, da quando sventola ovunque la bandiera europea e tutti i cittadini degli Stati aderenti all’Ue hanno potuto circolare e lavorare liberamente in gran parte del nostro continente, la confederazione Europea ha dato alcune prove non secondarie d’esistenza, pur essendo troppo spesso contraddetta dalle sue stesse regole.

  1. Il virus

Poi è venuta la pandemia. Ci siamo accorti allora che non esisteva un piano anti-epidemico comune, che ciascuno Stato faceva per conto suo, che nessuno era preparato al disastro, e che gran parte della nostra esistenza era – ed è – determinata da una classe politica e da una classe dirigente troppo spesso (anche se non sempre) impreparate e prive d’ideali e di programmi politici concreti e realizzabili.
Nonostante i quattro “paesi frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) e i quattro di Višegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Svolacchia e Ungheria), dobbiamo riconoscere che, con la faticosa approvazione del Recovery Fund, ideato da Merkel e Macron, un passo avanti è stato compiuto, perché per la prima volta l’Ue ha contratto un debito comune.
Se questo passo non fosse stato fatto, dell’Unione Europea sarebbero rimaste solo le briciole della burocrazia. E nessuno avrebbe potuto più crederci.
Dobbiamo però riconoscere che questo passo è stato più simbolico che reale. Per creare un’effettiva Federazione europea ci vorrebbe ben altro, per esempio unificare i bilanci, creare un fisco uniforme ovunque nei paesi dell’Unione, unificare la politica estera e gli eserciti. E questo significherebbe che gli Stati dell’Ue dovrebbero delegare ad istituzioni politiche comuni una parte molto più consistente dell’esercizio della propria sovranità.
Domanda: chi vuole realmente che questo avvenga? Di popolare, da quando l’Ue ha iniziato a funzionare con il suo greve apparato amministrativo e burocratico, gli unici movimenti che riscuotano qualche popolarità sono quelli sovranisti ed antieuropeisti.
Evocare oggi una sovranità nazionale che un secolo fa ha prodotto la seconda guerra mondiale è davvero ridicolo. Ed è penoso che trecento milioni di europei non se ne accorgano, nemmeno quando si credono europeisti. Da vent’anni, in effetti, crediamo che essere europeisti significhi appoggiare l’Ue così com’è. Ma l’Ue così com’è non va affatto bene, se non nei casi disperati (e la pandemia del Covid-19 è uno di questi). Per creare realmente una Federazione europea ci vuole molto di più che la diplomazia: ci vuole un popolo.
Esiste un popolo europeo? Siccome so di farne parte, ne sono del tutto certo. Ma quanti siamo a saperlo?

  1. Il compito

Dobbiamo, a questo punto, fare uno sforzo in più, non solo per risollevare l’economia. Dobbiamo rifondare la nostra patria, che non è l’Italia, o la Germania, o la Francia, ma l’Europa.
Solo diventando una Federazione l’Europa potrà sopravvivere non soltanto alla pandemia, ma anche ai programmi politici del capitalismo finanziario, che hanno contribuito ad aggravarla e a diffonderla. Invece l’Ue così com’è oggi è sorta proprio sulla base dei programmi del capitalismo finanziario.
È un’utopia desiderare che l’Europa diventi una Federazione? Se ci guardiamo attorno, siamo costretti a rispondere di sì. L’ammetto anch’io. Ma le utopie hanno sempre avuto una funzione politica e formativa essenziale, quando sono riuscite ad interpretare la realtà. Anche il nazionalismo e il comunismo sono stati delle utopie, prima di realizzarsi. E queste due utopie, quando si sono realizzate, hanno provocato due guerre mondiali e la guerra fredda. Perché l’utopia federalista non dovrebbe invece – come sta già facendo – produrre una pace duratura? Tanto più che, se non faremo diventare popolare questa utopia, l’Europa si farà divorare dalle grandi potenze globali, come ha iniziato a fare la Gran Bretagna, da quando è uscita dall’Ue.
Un’utopia diventa popolare solo sulla base d’un grande progetto educativo, o forse dovrei dire formativo. Noi dobbiamo fare in modo che inizi a crearsi una classe dirigente insieme capace ed entusiasta, un po’ come accadde in Germania e in Italia a metà dell’Ottocento. Questo progetto, se è riuscito allora ai tedeschi e agli italiani, perché non dovrebbe riuscire oggi agli europei?
Noi che ci occupiamo della formazione – insegnanti, intellettuali, psicanalisti, preti, genitori – non dovremmo mai dimenticarcene. Quel che accadrà in Europa nei prossimi cinquant’anni dipende prima di tutto da noi. E non dalla classe politica spesso incompetente che ci governa. Non dimentichiamo, in effetti, che quei politici sono stati eletti da noi.
Solo chi sa che cosa è accaduto nell’ultimo mezzo secolo può capire che significa essere usciti dalla crisi del dopoguerra, avere rifondato l’economia e la cultura europee e averle sapute difendere nei decenni della guerra fredda.
So bene che a questo punto potrei essere accusato di voler creare un’élite. Perché no? Una classe dirigente è sempre stata e sempre sarà una minoranza. E constatarlo non significa affatto derogare ai criteri della democrazia. Tutti i grandi progressi, nella storia, si sono realizzati solo quando i popoli sono stati guidati da una minoranza illuminata, che è riuscita a fare in modo che i propri difficili ideali divenissero comuni anche a tutti gli altri.

  1. Mobilità sociale

Un tempo l’Europa è stata guidata da un’élite politica profondamente popolare. Pensiamo, per esempio, a Churchill, ad Adenauer, a De Gasperi. Mi riferisco agli anni in cui gli Stati europei avevano adottato delle politiche di welfare, che riducevano le distanze fra i ricchi e i poveri.
Dagli anni Settanta in poi, il capitalismo finanziario è tornato a far arricchire i ricchi e impoverire i poveri, proprio come ha fatto l’euro. Allora la politica e l’economia favorivano la mobilità sociale. Chi studiava poteva migliorare la propria posizione sociale. Allora i figli dei contadini e degli operai diventavano impiegati o professionisti. Oggi i figli degli impiegati e dei professionisti restano disoccupati.
Questo è l’effetto del passaggio dall’economia del welfare al capitalismo finanziario. Il capitalismo finanziario non ha fatto nulla per prevenire ed alleviare la pandemia, ma sta anche distruggendo le basi dell’economia e della cultura occidentale, che intanto, negli ultimi decenni, in seguito alla così detta globalizzazione, sono diventate universali.
Sto parlando di qualcosa che interessa, semplicemente, a tutti, e quindi d’un principio della democrazia. Della politica e dell’economia chiunque deve occuparsi, perché si tratta d’un problema che riguarda chiunque. Ed è questo che facciamo quando andiamo a votare.
Tutti noi – insegnanti, intellettuali, psicanalisti, preti, genitori – dovremmo sempre ricordarcene.