Diventare analista

Lo scopo della psicanalisi è la formazione, non solo quando si tratta delle analisi cosiddette didattiche, ma anche quando sembra che essa sia chiesta solo per alleviare un disagio soggettivo (se qualcuno chiede un’analisi solo perché vuole diventare analista, diceva Lacan, è meglio accompagnarlo alla porta, perché non ne farà mai una).
Ciò che nella pratica analitica sembra terapia è solo un supplemento della formazione. Non perché l’analista debba insegnare qualcosa (ad insegnare, se mai, è l’analizzante), ma perché le insufficienze che si rivelano nei sintomi altro non sono che difetti di formazione soggettiva, delle lacune che l’esperienza della psicanalisi dovrà tentare di colmare, o almeno d’attenuare. È proprio per questo che la psicanalisi, come Freud ha sottolineato, non è una psicoterapia, ma ha solo effetti di psicoterapia.
Solo se s’intende la cura come formazione si attenuano le differenze del setting, rese necessarie dalle diverse patologie (queste sono solo varianti secondarie, mentre il compito dell’analista resta invariato).
In definitiva, è proprio dinanzi a questo compito che gli analisti troppo spesso arretrano, quando non sono abitati dal demone della teoria.
E proprio per questo il compito della psicanalisi non è terapeutico, cioè riparativo, ma propriamente ed immediatamente formativo. La psicanalisi è sempre stata – e, se non lo fosse più, deve tornare ad essere – anche una scommessa culturale e civile: vale a dire, in fin dei conti, politica.

Ettore Perrella

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È analista chiunque abbia chiarito il rapporto che intrattiene con la sua verità. L’analista non è un professionista, è piuttosto un artigiano. Ogni tanto tra gli artigiani spunta un artista: Freud, Jung, Ferenczi, Lacan, ecc. L’analista è da solo con la propria verità di fronte ad un altro, con il quale dovrà arrivare alla verità dell’altro.
Come prima osservazione e bene chiarire che nessun soggetto o istituzione può autorizzare chicchessia a fare il mestiere di analista. Se ciò accadesse l’analista sarebbe sorretto da un’istanza terza, a cui demandare regole e responsabilità; egli sarebbe pertanto deresponsabilizzato nei suoi atti. Mi spiego meglio: se l’analista venisse autorizzato da qualcuno o da qualcosa allora quando compie atto, che sta dentro le regole che questo qualcuno o qualcosa ha dettato, non correrebbe alcun pericolo di sbagliare; perciò farà solo atti che stanno dentro un manuale di regole. Sarebbe, cioè, come seguire un protocollo di cura, similmente a quanto accade in medicina.
In psicanalisi non può esserci un manuale di regole che uniformi il comportamento dell’analista. Ogni analista è un soggetto ed ogni analizzante è un soggetto. Questi due soggetti interagiscono nella loro totalità (un analista interagisce con Tizio che soffre di depressione e non con “la depressione”).
Per dirla in termini matematici: il percorso analitico è associabile all’interazione di due sistemi complessi adattivi* di cui è estremamente difficile prevedere l’evoluzione. Ecco perché non può esserci un manuale del comportamento in psicanalisi che sia sufficiente a garantire un’analisi sia.
Quale dev’essere la preparazione culturale dell’analista? Direi che condizione augurabile, quasi necessaria, ma sicuramente non sufficiente è la conoscenza della filosofia, della mitologia, delle religioni, della logica, della letteratura, della stora dell’arte, della matematica, della fisica, della musica ed infine degli scritti di Freud e – nel nostro caso – di quelli di Lacan.
Sono queste comunque tutte conoscenze auspicabili ma non sufficienti, la psicanalisi non si può insegnare, deve essere vissuta. Un analista deve voler imparare, ma deve anche sapere che non avrà mai imparato a sufficienza e che la sua preparazione sarà senza termine. Se, come abbiamo detto sopra, nessuno può dare l’autorizzazione a chicchessia di fare il mestiere di analista allora l’analista potrà darsela solo da sé. Similmente nessuno potrà mai dire che in futuro qualcuno sarà nella posizione di psicanalista.
Per contro si potrà trovare un modo per affermare che un soggetto ha operato, nel passato, come psicanalista. Infatti tutti noi leggiamo, abbiamo letto o faremo bene a leggere i testi di Freud, Lacan, ecc. Se lo facciamo è perché riconosciamo che questi autori sono psicanalisti. Se tutti noi (comunità psicanalitica) riconosciamo che questi autori sono psicanalisti, allora per essere riconosciuti come tali è necessario (non sono certo che sia anche sufficiente) che si lasci una traccia di questa posizione di psicanalista. Questa traccia può essere uno scritto, un insegnamento, una conferenza, un analizzante passato alla posizione di analista. Ora il problema si sposta su un altro punto: qual è la figura che riconosce che la traccia lasciata è psicanalitica?
Prima dicevo che tutti noi abbiamo letto i testi di Freud ecc. Perché li abbiamo letti? La risposta sembra sia questa: lo abbiamo fatto perché siamo interessati alla psicanalisi; meglio ancora perché siamo interessati al nostro percorso analitico. Allora è dalla posizione di analizzanti che si riconosce ad un altro la posizione di analista. Se non altro possiamo ora dire che: può dirsi psicanalista chi si riconosce tale dopo aver portato a termine la propria analisi personale – cioè la sua analisi è stata “una” (non è possibile esista un’analisi parziale), intera e pertanto didattica (Jacques Lacan) – inoltre riconosce che la propria formazione è senza termine, fonda la propria teoria e la propria pratica sull’insegnamento di Freud ed infine lascia una traccia del suo lavoro o del suo pensiero.
(*) I Sistemi Complessi Adattivi (CAS) sono sistemi dinamici con capacità di auto-organizzazione composti da un numero elevato di parti interagenti in modo non lineare che danno luogo a comportamenti globali che non possono essere spiegati da una singola legge fisica. Sono esempi di CAS: le comunità di persone interagenti tra loro, il traffico automobilistico o pedonale, il cervello umano, ecc.

 Franco Borghero